Dentro il nostro tempo - Il contenuto delle opere

 

Il paesaggio della ferrovia mi ha sempre interessato, senza una ragione precisa. Col tempo ho dato un senso a quelle trame, a quei segni concentrici che “bucano” la tela.

Ho cominciato dipingendo treni fermi, binari, vagoni, fili elettrici, il tutto rigorosamente inquadrato nella geometria della prospettiva. In seguito, la mia attenzione si è spostata dal paesaggio al passeggero. Ora sono portato riempiere le tele di figure, e la stazione, come struttura urbana è spesso solo accennata o semplicemente suggerita da qualche particolare.

L’uomo e la stazione

È maturato cosi un vero cambiamento di contenuto: dal paesaggio che può suggerire il ricordo di un incontro, di un viaggio, oppure il profumo legato a quel preciso ambiente, alla comunicazione dell’atmosfera di provvisorietà, di movimento proprio di una stazione ferroviaria.

È l’uomo alla stazione il fulcro delle mie opere, la persona che ha deciso di cambiare ambiente, l’uomo che vuole essere protagonista del suo destino, l’uomo determinato che ha scelto la sua destinazione colto vicino ai binari, in attesa.

Spazi di attesa

Molte opere presenti anche in questo volume sono titolate “Attesa”. Si può pensare che si tratti sempre dello stesso quadro, ma ogni opera è diversa: un fermo immagine di una storia unica, destinata a svilupparsi perché il pittore descrive, racconta, emoziona, anche se non usa le parole.

Con questo tema, porto il visitatore dentro la struttura di una stazione ferroviaria che lo avvolge e coinvolge nella sua particolare atmosfera carica di odori, di brusii diffusi rarefatti e inclassificabili, sopraffatti, ogni tanto, dallo stridore dei freni di un convoglio in avvicinamento.

L’architettura abbraccia e disegna ampi spazi e gioca così un ruolo fondamentale nella scenografia. Dalle grandi finestre entra la luce che investe la trama dei fili elettrici che sembrano graffiare il soffitto sopra i binari. Guarda, c’è un treno in sosta là in fondo in attesa del semaforo verde e un altro annuncia il suo arrivo con un duplice segnale acustico amplificato dall’ambiente. Gli fa eco un altoparlante che comunica gli orari di arrivi e partenze imminenti. Un movimento frettoloso e scomposto di alcuni presenti contrasta con il regolare e continuo flusso di figure vaghe, e insicure di passeggeri appena scesi da un treno.

Spazi di vicinanze e di allontanamenti

C’è anche chi, in disparte, aspetta il ritorno di una persona cara e fa segnali fra la gente per essere riconosciuto. Nella massa si riconoscono i pendolari, gli uomini d’affari, gli studenti, insomma, chi transita ogni giorno dalla stazione.

Vicino al binario numero nove ci sono persone con la pelle scura, altri con un taglio magrebino, che stanno in scena, paludati secondo le loro tradizioni con poche cose appresso. Aspettano.

La grande Storia, non è solo quella fatta di trattati e di guerre, è spesso il frutto di tante piccole storie individuali, e di grandi spostamenti di massa realizzatisi per motivi diversi.

Oggi le “primavere” incompiute dei paesi del nord’Africa hanno reso più difficile la vita già grama per intere popolazioni. Le guerre civili, di religione, l’odio, la paura e le trame di alcune potenze straniere interessate alle ricchezze del sottosuolo, continuano a spingere grandi masse di disperati verso le nostre coste a bordo di barconi fatiscenti che ricordano “la zattera della Medusa” di Theodore Guericault. Chi arriva, sa che l’Europa è in difficoltà e avverte il peso di questi gravi avvenimenti. Incassa con dignità anche la diffidenza e l’indifferenza, che offende più di un rifiuto, degli italiani ed europei. Tuttavia, questi disgraziati trovano già qui un ambiente migliore di quello abbandonato.

La cronaca segnala che si tratta di gente in transito, che ha nulla da perdere, di un flusso inarrestabile. Dopo il deserto e il mare, alla spicciolata, arrivano sul binario giusto, per un’altra trasferta, per unirsi ad un parente che li ha preceduti. E mentre aspettano il treno con altri migranti cui sono vicini per caso, gli sguardi si incrociano, e si riconoscono come partecipi dello stesso progetto. Nascono nuove relazioni, si scambiano esperienze e idee che rafforzano, in loro, le speranze.

Stazione, finestra sul mondo

Qualcuno definisce la stazione come un non luogo, limitando la sua importanza allo spazio e al movimento fisico, di merci e persone che transitano dentro i convogli. Ma, se consideriamo il capitale umano che la frequenta, si deve convenire che è un luogo di eccellenza, di eccellenza interculturale, perché questi migranti portano con loro religione, cultura, ideali e tradizioni.

Ovunque vadano queste persone condivideranno questi valori e porteranno un rimescolamento delle idee, ad una continua fusione di vite che sfocerà, ne sono certo, in un arricchimento culturale e morale delle popolazioni di cui saranno ospiti.

Precarietà e provvisorietà della vita

Le “Attese” sono opere che parlano di solitudine, della precarietà della vita e della provvisorietà delle condizioni umane.

Importanti, a volte provvisorie, possono rivelarsi anche le scelte che spesso siamo costretti a fare: quelle che sono catalogabili come vere svolte del nostro percorso come il matrimonio, l’acquisto di una casa, l’indirizzo degli studi, la scelta di un nuovo lavoro.

Sono decisioni che ci costano molto e chi le fa, di volta in volta, si carica di responsabilità. “Homo faber fortunae suae”, certo, se, nelle varie stazioni della vita, dopo una “attesa” di riflessione, si sale sempre sul treno giusto.

Può succedere anche che qualcosa vada storto. Occorre, in questi casi, non senza fatica e dolore, rivedere la scelta, fissare una nuova meta da raggiungere con il nostro treno dopo una nuova doverosa “attesa” chiarificatrice.

Il mondo delle stazioni ferroviarie mi ha dato l’occasione di vedere la disperazione di giovani vinti incontrati in situazioni disperate, ma anche la disinvoltura e il cameratismo di gruppi di pendolari, che vivono il treno con confidenza e familiarità per il tempo dedicato al trasferimento nei posti di lavoro o di studio. Ho dipinto la solitudine di tante persone pur essendo di fatto in attesa con altre. I riti del viaggio, i saluti, i baci e gli abbracci di amici e parenti di viaggiatori in partenza o appena scesi dal treno. Mi sono soffermato sulle attese lunghe e snervanti per i ritardi accumulati dai convogli. Ho colto la gioia dei bambini attratti dal movimento del paesaggio oltre i vetri dello scomparto ferroviario. Ho applaudito quanti hanno trovato il coraggio di partire per conoscere se stessi e terre lontane.

Velocità, Tecnica e Motori: il richiamo del consumismo

Chi ha bisogno di un paraurti, di un fanalino, chi vuole sostituire, risparmiando, una portiera ammaccata della sua auto, può rivolgersi ad uno sfasciacarrozze. Questi grandi negozi di pezzi di ricambio usati sono ovunque, nelle periferie delle grandi città, lungo le strade più trafficate di ogni regione. Li chiamano anche cimiteri di macchine: montagne di carcasse di auto arrugginite, di rottami di ferro, di lamiere contorte, scheletri di auto non più riconoscibili perché spogliate di ogni accessorio che può essere riciclato.

Sono scarti della nostra civiltà, la cosiddetta civiltà dei consumi, e c’è da sbalordire nel vedere la quantità di materiale non solo ferroso accumulato con ordine in questi magazzini all’aperto.

Il mercato offre ogni giorno nuovi modelli di auto, e le case produttrici moltiplicano e arricchiscono le vetture di nuovi accessori e confort per attrarre il consumatore che ama ricercare e possedere dei beni voluttuari eletti a “status symbol”.

Una grossa fetta dei nostri risparmi, viene investita nell’acquisto di una macchina perché indispensabile per gli spostamenti legati al lavoro e al tempo libero. Chi se lo può permettere, ma anche chi ama mettersi in mostra, al momento dell’acquisto la sceglie potente, elegante e prodotta da una casa automobilistica di prestigio.

Con questa mentalità dominante, la macchina è diventata oggetto di culto e simbolo del successo personale. Esagerando, potrebbe essere riconosciuta, per l’abuso che se ne fa, come una protesi, una appendice della persona.

E la pubblicità, nella formazione di queste idee, fa ogni giorno la sua parte.

Le opere che titolano “rottami” vogliono essere una riflessione, una denuncia del consumismo. Questo delle macchine è forse il fenomeno più visibile fra i tanti beni di consumo voluttuari come telefonini iphone, ipad che tutti ostentano con piacere. Il consumatore ubbidisce così ad un finto bisogno creato da sistema.

I cimiteri di macchine si fermano alla denuncia e mostrano con obiettività la volatilità di quell’oggetto “sacro”, di quel trono di cartapesta. Mi auguro suggeriscano, a chi si sofferma su queste opere, il sospetto , non tanto lontano dalla verità, che le leggi di mercato condizionano le nostre scelte, il dubbio che forse siamo vittime di una raffinata rapina. Il fatto diventa molto più grave se, per completezza, ammettiamo che queste osservazioni valgono anche per buona parte della massa di prodotti che finisce nelle discariche urbane.

La dimensione dei “Notturni”

I “Notturni”, che ho realizzato nei primi anni duemila, si muovono nell’ottica opprimente del traffico e dell’ambiente cittadino.

Ne fanno parte, come ha rilevato un attento osservatore, del mio periodo blu.

In essi ho cercato di creare atmosfere realistiche e familiari che, automobilisti e non, vivono loro malgrado. Le code ai semafori, lo smog, la pubblicità, il fastidio dei fari delle macchine che incontri, i riflessi sull’asfalto bagnato, la velocità, il ritmo martellante del traffico in città e, nelle strade di periferia, il disagio per l’offerta “d’amore”.

Alcuni dipinti esulano da questa dinamica metropolitana, (vedi “L’appuntamento”; “Cantiere edile”; ”Ombre notturne”, ”La strada”. E raccontano una realtà poco visitata immersa in un alone di mistero. I chiaroscuri e l’assenza dell’uomo sulla scena danno un taglio particolare a queste immagini che, secondo me, hanno qualcosa in più, dovuto, forse, alla magia della notte e dei colori.

Testimone del nostro tempo

Ho cercato, e cerco tutt’ora, di essere testimone del nostro tempo portando sulla tela alcune immagini relative alla moda, alla pubblicità, al gioco d’azzardo delle “slot machine” e alla cementificazione del territorio .

Ho riservato particolare attenzione alla solitudine e alla fragilità della donna che continua ad essere usata, violentata e purtroppo massacrata malgrado le rivendicazioni del movimento femminista degli anni 70 e le ormai riconosciute richieste paritarie.

Ho cercato anche di evidenziare il tema della comunicazione all’interno della famiglia, il rapporto genitori e figli e fra i coniugi. Dopo gli anni 60 c’è stato un cambiamento all’interno della famiglia: le regole relative al comportamento dentro e fuori casa, non sono più emanazione dei genitori, ma vengono dai media, dalla società. Sono cambiate le aspirazioni, i desideri della persona, si cerca il benessere, si ama possedere cose di valore da ostentare, si insegue il successo ad ogni costo. Si preferisce il posto fisso, perché da sicurezza e più tempo libero . La coppia preferisce convivere, piuttosto che legarsi con il matrimonio. Le scelte, insomma, sono scelte egoistiche proprie di una vita da condurre sempre in competizione con l’altro.

I figli già durante la frequentazione delle medie, scelgono le regole del gruppo: il ragazzo non veste più come vorrebbero i genitori. Per gli accessori, dalle scarpe alla sciarpa, dalla cartella al diario, la scelta individuale lascia il posto al conformismo: tutti uguali per non essere additati come diversi. A casa non sentono il bisogno di dare spiegazioni del loro comportamento e, appena possono, si chiudono nella loro “cameretta”. Qui le telefonate e i contatti con il computer dettano la loro agenda. I genitori sono spiazzati e stanno in disparte per non sembrare fuori tempo.

In ogni angolo della casa c’è un televisore; così, orari permettendo, ci si trova tutti assieme solo a tavola (anche lì, però, davanti al piccolo schermo). La televisione ha sostituito il dialogo anche fra marito e moglie ed ha contribuito ad aggravare una situazione già incrinata dalla routine familiare.

Non è escluso che tutti si rendano conto di questo muro di egoismo che li divide; però, si continua a scegliere la posizione di volta in volta più conveniente, che permette di tirare avanti e di evitare i contrasti.

Con lo sguardo nel futuro

La presenza di tanti “foresti” nel nostro territorio ha condizionato la mia attenzione verso il problema dell’integrazione razziale. È un fenomeno molto esteso qui, al nord del paese, perché il territorio offriva, fino a qualche anno fa, maggiori possibilità di occupazione. Coloro che sono arrivati da qualche lustro, hanno trovato lavoro e oggi sono parte della popolazione italiana.

In alcune opere ho cercato di affrontare i problemi che rimandano alla categoria della integrazione razziale che potrebbe realizzarsi in un prossimo futuro, quando i figli degli emigranti , nati nel nostro paese, educati e istruiti nelle nostre scuole, dovrebbero sentirsi parte del nostro paese.

Penso, tuttavia, che solo l’unione delle donne, tutte le donne, che da sempre, in ogni parte della terra, hanno avuto a cuore la famiglia e il benessere dei figli, possa favorire la maturazione, il superamento di pregiudizi e una convivenza più aperta disponibile verso l’altro.

Un pizzico di nostalgia

Una parola meritano anche le opere, ormai datate, che titolano “Campi di grano”.

Sono ricordi particolarmente cari che ho voluto fermare sulla tela, non per fermare il tempo, ma per ricordare a me stesso le mie origini, la gente umile che ho conosciuto, interprete di una filosofia di vita concreta, costruttiva, mai rassegnata anche se cosciente dei limiti posti dalla miseria degli anni quaranta e cinquanta. Sono paesaggi che ho abitato, che evocano serenità, spazi perduti e silenzi.